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76 - Il linguaggio della pratica

Il linguaggio della pratica

2019 - Luglio
N° 76
Editoriale

Sul tema di questo numero di Percorsi Yoga, durante le riunioni di redazione sono emerse subito molte proposte interessanti. Non poteva che essere così visto che la comunicazione riguarda un aspetto fondamentale dell’insegnamento. Quale linguaggio usare, quanti riferimenti culturali, anatomici, emozionali dare, come comunicare con la parola, che tono della voce usare, in che modo presentarsi? Ogni insegnante ha giocoforza riflettuto su questi aspetti in base alla sensibilità personale, alla tradizione di cui è portavoce, all’esperienza maturata con gli allievi. Il tema è così ricco che molto altro si sarebbe potuto scrivere, ma crediamo che i diversi punti di vista qui esposti, pure se non esaustivi, siano uno spunto di riflessione buono, anche molto pratico, in alcuni casi.

Nell’articolo I ferri del mestiere, Marco Peduzzi esamina tre diversi stili di conduzione della lezione yoga: attraverso la sola parola, attraverso la dimostrazione delle posizioni e infine attraverso un modo che contempli la possibilità di praticare con gli allievi. Di ognuno di questi stili di linguaggio illustra aspetti vantaggiosi e altri critici. Racconta che, attraverso gli anni, il suo modo di insegnare è cambiato, e spiega quale oggi sia la conduzione che più si addice al suo insegnamento, motivandone le ragioni.

In Per una “svetrinizzazione” della pratica di āsana nell’era digitale, Maria Chiara Mascia parte da un résumé sulla diffusione dello yoga in Occidente a opera dei grandi comunicatori indiani quali Vivekananda, Krishnamacharya o Kuvalayananda che hanno messo in scena lo yoga moderno attraverso i media dell’epoca. Il suo fine è interrogarsi su un tema che riguarda l’aspetto performativo, presente già nelle tradizioni di haṭha yoga: oggi gli allievi arrivano alla lezione dopo aver visto sul web innumerevoli performance yoga, più o meno spettacolari, che alimentano le loro aspettative, e molti insegnanti usano il web per “mettersi in vetrina”; come questa situazione influenza il linguaggio della lezione e come possiamo tenerne conto?

Nel suo articolo dal titolo Parole che conducono, silenzi e spazi che inducono, Daniele Rabozzi afferma che è difficile parlare delle parole che conducono una lezione di yoga se non si parla anche del silenzio che durante la pratica «è il luogo dove le tensioni fisiche si placano, dove il respiro si regolarizza, dove l’agitazione mentale trova pace, dove ciò che è occultato si rivela». Secondo l’autore, se l’uso delle parole è indispensabile all’insegnante per spiegare, indicare e suggerire, all’allievo vanno lasciati il tempo e lo spazio dell’ascolto perché possa emergere qualcosa che appartiene al praticante e non a chi conduce. Meno parole, meno spiegazioni, meno indicazioni: più spazio, più silenzio, più autonomia, è la sua esortazione finale.

Nell’articolo La parola in yoga nidrā, Ferruccio Ascari descrive nel dettaglio la tecnica e il linguaggio di yoga nidrā sviluppati da Satyananda, tesi a esplorare la mente partendo dal corpo e a nutrire il sankalpa, il proponimento interiore che guida il cammino spirituale. L’autore argomenta sulla necessità di rimanere estremamente ligi ai suggerimenti di Satyananda, senza permettersi deviazioni “creative” che potrebbero divenire critiche in una tecnica che già di per sé può essere fonte di difficoltà per qualche allievo.

Renata Angelini e Moiz Palaci in Il linguaggio nella conduzione della pratica considerano che, se la pratica è un luogo di apprendimento interiore, è meglio evitare le induzioni, cioè il suggerire verbalmente agli allievi cosa sentire, cosa scoprire. L’articolo sottolinea anche l’importanza del ritmo per non saturare con la propria voce il tempo a disposizione del praticante.

Gabriella Cella, nell’intervista a cura di Emina Cevro Vukovic, dal titolo La forza del simbolo, sottolinea come sia necessario adeguare le proposte yoga e il linguaggio della lezione alle persone che si hanno davanti e come, dunque, il suo linguaggio cambi nelle diverse situazioni: classe di allievi conosciuti, classe di formazione di futuri insegnanti o approfondimento aperto a tutti. «Se continuo a insegnare dopo cinquanta anni» dice «è perché continuo a imparare dai miei allievi. Adeguo l’insegnamento alle risposte che mi giungono dagli allievi, sono loro che mi portano a un certo linguaggio». Quello che non manca mai nel suo stile Yoga Ratna è un riferimento alla trascendenza, alla parola poetica e all’evocazione di simboli che attivino una risposta interiore.

L’articolo Il valore della parola ripetuta per l’interiorizzazione di Elisabetta Onori ruota attorno a una delle caratteristiche principali della pratica di Nil Hahoutoff, che l’autrice ha fatto sua grazie all’insegnamento di Patrick Tomatis e Claudio Conte: «Guidare la lezione principalmente attraverso la voce per dare modo all’allievo/a di processare, tramite l’ascolto, le indicazioni fornite e avviare così un processo di interiorizzazione che potrebbe andare oltre la fisicità». In questo percorso, la ripetizione gioca un ruolo importante che consente di accogliere e interiorizzare a livello inconscio lo stimolo, comprenderlo, realizzarlo e infine apprenderlo.

Il lungo articolo di Rodolphe Milliat, psico-pedagogo francese, insegnante yoga seguace di Sri Saccidananda Yogi, esamina tre possibili livelli di linguaggio nell’insegnamento dello yoga. Scoperchia atteggiamenti personali che si manifestano in comunicazioni autoritarie o narcisistiche o ripetitive o naif, e si sofferma sull’utilità o meno del pronunciare commenti alle posizioni, suggerendo di valutare le intenzioni reali su cui essi si fondano. È un buon testo che ci induce “all’esame di coscienza” disincantato.

Nella parte finale della rivista si accoglie la consueta sezione di testimonianze di insegnanti yoga appartenenti alla nostra associazione.

Marina Brivio ha capito, in anni di esperienza, che il linguaggio della pratica deve essere soprattutto chiaro e semplice, comprensibile a tutti, volto a dare all’allievo indicazioni perché possa «percepire il corpo» senza mai «forzarlo». Nelle sue lezioni, l’autrice pone particolare attenzione ai termini che conducono a esperienze di apertura e distensione e concede largo spazio a un «ascolto» profondo, fatto con il cuore.

Beatrice Calcagno condivide il suo stile di insegnamento attivo, affermativo, di volontà e possibilità. Nelle sue lezioni l’uso della voce, del tono, del timbro, della parola o del silenzio è dosato sapientemente a seconda del tipo di pratica e del livello di esperienza del partecipante, con l’aggiunta, quando serve, di un pizzico di humor per sdrammatizzare e mantenere un clima rilassato e informale.

Laura Majolino illustra la modalità di conduzione di una classe di Ashtanga Yoga, conduzione da cui lei si discosta in parte, motivandone il perché, per quel che riguarda la recitazione dei mantra.

Antonio Olivieri, grazie anche ad alcune scelte citazioni, sottolinea l’importanza che la tradizione indiana dà alla purificazione del linguaggio e della comunicazione, anche attraverso il canto vedico e i mantra.

Cristiana Vergari racconta la sua esperienza nell’insegnamento ai bambini e si sofferma sul ruolo fondamentale del tono di voce.

Sommario

I ferri del mestiere
Marco Peduzzi


Per una “svetrinizzazione” della pratica di asana nell’era digitale
Maria Chiara Mascia

Parole che conducono, silenzi e spazi che inducono
Daniele Rabozzi


La parola in yoga nidra
Ferruccio Ascari Sr. Trigunananda

Il linguaggio nella conduzione della pratica
Renata Angelini e Moiz Palaci

La forza del simbolo
Gabriella Cella


Intervista a cura di Emina Cevro Vukovic

Il valore della parola ripetuta per l’interiorizzazione
Elisabetta Onori


I tre livelli di linguaggio nell’insegnamento dello yoga
Rodolphe Milliat



Il linguaggio della lezione
Marina Brivio

Domanda chiara risposta chiara, domanda vaga risposta vaga
Beatrice Calcagno


Una perfetta sincronizzazione tra respiro e movimento
Laura Majolino


Come trasmettere lo yoga durante una lezione
Antonio Olivieri


Insegnando ai bambini
Cristiana Vergari


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